"Comit faceva maxi utili ed era regina in Borsa ma Cuccia volle venderla ad ogni costo a Intesa"
parla Pier Francesco Saviotti
PRIVATIZZAZIONE 30 ANNI DOPO - IL COLLOQUIO - la verità dell'ultimo AD della Comit: "prima di finire dentro Banca Intesa tra il 1997 e il 1999 la Commerciale ebbe profitti crescenti e il Roe salì in anticipo di due anni al 10%. Le successive rettifiche da 2 miliardi sulle attività di Sudameris?
Molto inferiori ai 3 miliardi di plusvalenze implicite che abbiamo portato in dote a Intesa"
Pubblichiamo integralmente un articolo di Alessandro Grazianicomparso sul Sole 24 Ore di venerdì 8 marzo 2024: intervistando Saviotti, fa chiarezza sui fatti di 25 anni fa quando la Banca Commerciale Italiana, indifesa in quanto sostanzialmente priva di soci privati forti e indipendenti (quasi tutti "gestiti" da Mediobanca) subì un attacco da parte di Banca Intesa e rimase inerme di fronte a un concambio di azioni irrealistico, a nostro giudizio penalizzato da bugiarde voci su una sua presunta e insincera difficoltà
Ringraziamo Saviotti per il suo intervento e il Sole 24 Ore che ha finalmente pubblicato la verità sui fatti di allora.
piazzascala.it
"Chi ancora oggi continua a
dire che la Banca Commerciale Italiana era in
difficoltà finanziarie quando 25 anni fa fu
comprata da Banca Intesa, racconta una grande
falsità
che va smentita per sempre. Dal 1997 a metà
del 1999, sotto la gestione mia e di Alberto Abelli,
la Comit aveva più che raddoppiato sia gli utili
che la valutazione di Borsa. E in bilancio
figuravano partecipazioni che nel tempo si sono
concretizzate in ben 3 miliardi di euro di
plusvalenze. Per me è doveroso fare chia rezza
anche per rispetto a tutti coloro che con orgoglio
hanno lavorato in Comit".
Pier Francesco Saviotti, 81 anni ben portati, è
stato insieme con Alberto Abelli - che aveva la
delega per le attività estere - amministratore
delegato della Comit nel periodo
1997/1999 e da quando lasciò la banca, nel giugno
del 1999, subito dopo l'acquisizione da parte di
Intesa, non ha mai voluto fare dichiarazioni sulla
Comit. Ma oggi, in occasione dei 130 anni dalla
fondazione della banca e dei 30 anni dalla sua
privatizzazione, ha accettato di ricostruire gli
ultimi anni di quella che, all'epoca, era
consideratala più intemazionale delle banche
italiane e che, malgrado la redditività
rivendicata oggi da Saviotti (o forse proprio per
quella) finì per diventare la "preda ambita" del
riassetto
bancario dopo che, negli ultimi anni di vita di
Enrico Cuccia, lo storico rapporto di amore-odio tra
i due istituti si era indubbiamente raffreddato.
«Dopo la privatizzazione del 1994 in teoria avremmo
dovuto essere una public company - racconta Saviotti
- ma in pratica la Mediobanca di allora - che aveva
operato prò domo sua in sede di offerta pubblica,
come è ben documentato nel volume di recente
pubblicazione "Illusioni perdute" di Pietro Modiano
e Marco Onado - condizionava la maggioranza in
assemblea e nel nostro cda. In una simile situazione
qualunque progetto di aggregazione proposto non
aveva spazio, fatto salvo qualche contatto con
banche regionali, per cui ci siamo concentrati a
lavorare sulla crescita interna attraverso
iniziative che sono risultate vincenti. Le racconto
come andarono quegli anni, ma mi faccia partire dai
dati che raccontano bene quale era la forza della
Comit». Inforca gli occhiali e, bilanci alla mano,
parte con date e numeri.
«Io e Abelli siamo stati nominati direttori
generali di Comit nell'aprile del '97 e
amministratori delegati un anno dopo.
La sequenza dei risultati di bilancio parla chiaro:
utile netto di 415 miliardi di lire nel 1997, 895
miliardi di lire nel 1998, 440 miliardi di lire nei
primi cinque mesi del 1999,
anno che si è chiuso con un utile di 656 miliardi
di lire dopo cospicui accantonamenti. In quell'anno
è stata annunciata l'acquisizione da parte di Banca
Intesa e noi abbiamo tolto il disturbo. Ma la
crescita è proseguita anche nel 2000, ultimo
bilancio di Comit, chiuso con un utile di 2.121
miliardi di lire. Nel 2001 la Banca Commerciale
Italiana è
scomparsa, incorporata in Intesa con una operazione
di fusione che non era prevista dagli accordi, e
l'anno si è chiuso con un utile netto di 928
milioni di euro, nonostante importanti
accantonamenti sia su partecipazioni (sudamericane)
che su crediti, e un onere a conto economico di
1.158 milioni di euro per i warrant put Comit».
Però nel 2002 i nuovi vertici di Banca Intesa
dovettero procedere a importanti rettifiche di
bilancio a causa di Sudameris, la storica
controllata di Comit che operava in vari Paesi
sudamericani, e di finanziamenti legati all'operatività
su controparti estere. Come lo spiega? «Già
nel 2001 erano state fatte le prime svalutazioni su
Argentina e Perù. Non entro nel merito delle politiche di bilancio
adottate dopo la nostra uscita, nè sulla
conseguente decisione di Intesa di abbandonare il
Sudamerica. Le posso dire che Sudameris,
nonostante operasse in un contesto politico ed
economico particolare, ha sempre contribuito con
bilanci accettabili. Risultati altalenanti, certo,
come gli andamenti economia di quei Paesi e delle
loro valute». Resta il fatto che, dopo le
importanti svalutazioni delle partecipate
sudamericane tra l'altro propedeutiche alla loro
cessione, la teoria del salvataggio di Comit da
parte di Intesa ha preso quota Che ne pensa? Sorride
e si rimette gli occhiali «Non posso che ricordare
che Comit ha portato in dote a Intesa partecipazioni
di ingente valore. Ad esempio, Seat Pagine Gialle
ha consentito di realizzare plusvalenze pari a
circa 1,4 miliardi
di euro e altri 770 milioni di euro sonoarrivati da
Banca di Legnano e Biverbanca Tutto questo per
dire che la Comit era una banca solida ben gestita
che faceva utili crescenti, apprezzata dalla
clientela privata e amata in particolare dal mondo
imprenditoriale e che, dopo la privatizzazione,
stava diventando una "case history" anche in Borsa
grazie
all'apprezzamento dei fondi esteri».
Dalla fine del '97, in un
anno la quotazione di Borsa di Comit raddoppiò
di valore (si veda il grafico in pagina).
Perché? Cosa era accaduto? «Non appena
nominati direttori generali io e Abelli, con la
collaborazione del collega Vittorio Conti e del
suo team, avevamo predisposto un business pian,
denominato Comit 2000, che prevedeva di
aumentare il Roe nel triennio '98/2000 dal 5% al
10% Decidemmo di presentarlo agli investitori
esteri. Abelli conosceva bene Merrill Lynch e
con loro, la prima volta con Edoardo Spezzotti,
facemmo un breve roadshow a Londra, Boston,
NewYork. Nell'immediato la reazione del mercato
fu modesta, ma i risultati della banca
crescevano mese dopo mese oltre le nostre
aspettative. Quasi un anno dopo facemmo un
secondo road show, toccando anche Dallas e San
Francisco, sempre con Merrill Lynch, ma stavolta
accompagnati da Andrea Orcel. Ci fu una vera e
propria corsa dei fondi esteri a investire in
azioni Comit. E nel '98 il Roe si consolidò
attorno al 10,50%, superando,| con due anni di
anticipo, il target del 2000».
La banca andava bene ma proprio in quegli anni
la Mediobanca di allora vi voleva "accasare" a
ogni costo. Da lì iniziarono i veri problemi
per l'autonomia della Comit? «Sul
fronte delle possibili aggregazioni c'è un
antefatto che risale al 1994, quando non ero
ancora direttore generale, e riguarda il non
riuscito tentativo della Comit di entrare
nell'AmbroVeneto. Un insuccesso che ci costò
qualche inimicizia con una parte del sistema
bancario e, forse, anche nei rapporti con
Bankitalia. Poi nel n'97 ci fu il tentativo di
nozze che, ancorché avvenuto in un contesto
particolare, finì anche questa volta in un
niente di fatto».
Quale è la sua versione di quella storia? «Non
era stata la Comit a cercare Cariplo,ma loro a
proporsi a noi. Di questo sono testimone. Ero
nell'ufficio del mio presidente Luigi Fausti
quando ricevette la telefonata del direttore
generale di Cariplo Sandro Molinari che
proponeva di studiare un accordo tra i due
istituti, un "fidanzamento", come lo chiamò
lui. Fausti era entusiastasta. Dopo poco,
Molinari richiamò Fausti e disse che era meglio
andare direttamente a nozze.
Ma poi
all'improvviso saltò tutto. Con una
telefonata ci dissero che Cariplo
aveva concluso un accordo con
Ambroveneto e capimmo che
l'iniziativa di Molinari era stata
stoppata dai suoi azionisti.
Nonostante ciò Fausti volle
comunque formulare un'offerta il cui
risultato è ben noto». La Cariplo
di Giuseppe Guzzetti preferì l'Ambroveneto
di Bazoli e la Comit rimase sola.
Sfumate le iniziative di
aggregazioni volontarie, per voi
iniziò la fase di quelle imposte
da Mediobanca che condizionava la
maggioranza del cda della Comit.
«Nel febbraio del 98 1a Mediobanca
di Cucciae Maranghi convocò una
riunione riservata per avviare il
progetto di SuperBin che
prevedevalafusione tra Comit Credit
e Banca di Roma. Eravamo presenti io
e Fausti, Lucio Rondelli e
Alessandro Profumo per UniCredit,
Cesare Geronzi e Antonio Nottola per
Banca di Roma. Ci illustrarono a
grandi linee lo schema
dell'operazione e ci lasciammo con
l'impegno ad approfondire il dossier
in tempi brevi». E poi? «Più o
meno un mese dopo venne a trovarmi
Profumo per informarmi che il
Credito Italiano si sfilava dal
progetto, avendo ormai conduso
un'operazione che prevedeva
l'aggregazione con altri istituti (Cariverona
Crt e Cassamarca ndr). Per noi, da
quel momento in poi iniziò lo
stillicidio della estenuante
trattativa con Banca di Roma». Era
una opzione voluta da Mediobanca ma
perché davate l'impressione di
rifiutarla a prescindere dalle
valutazioni? «Non andò così. Ci
eravamo predisposti per organizzare
una struttura ad hoc ed avevamo
avuto i primi contatti. Il nostro
cda spingeva per aprire la
trattativa mentre Fausti era freddo.
Dissi al presidente: siamo manager,
se ce lo chiede il cda abbiamo
l'obbligo di approfondirla. Lui mi
rispose che non avremmo neanche
dovuto sedere al tavolo, disse che
era una operazione politica,
oltretutto con il forte appoggio del
Governatore Antonio Fazio, e che io
non capivo niente di politica Aveva
ragione in entrambi i casi. Comunque
noi continuammo la trattativa». Il
negoziato andò avanti per alcuni
mesi, senza esito per la vostra
resistenza «Il nodo era la diversa
valutazione del portafoglio crediti
e di conseguenza il concambio. Ma
era impossibile trovare un accordo».
Nel frattempo, vista la situazione,
altre banche si fecero avanti per
aggregarsi con la preda ambita
Comit? «Seguendo l'orientamento del
consiglio noi stessi ci eravamo
mossi contattando tra l'altro Intesa
e Banca Regionale Europea, ma ogni
tentativo fu bloccato». Avevate
tutti contro? «In cda solo Diego
Della Valle e Vincenzo Sozzani di
Pirelli difendevano l'autonomia
della banca e dei manager. Talvolta
ci diedero una mano anche Stefanel e
Cerutti. In posizione intermedia
Michel Francois Poncet di Paribas.
Tutti gli altri erano apertamente
contro di noi e a favore della
scelta di Mediobanca di farci
aggregare con Banca di Roma. Davanti
alle nostre motivate resistenze,
ricordo le pretestuose motivazioni
sollevate dai consiglieri e in
particolare la durezza e l'animosità
di Francois Gutty che sembrava il
vicepresidente della Banca di Roma
più che il vicepresidente della
Comit. Ogni volta era una battaglia
e passavano in secondo ordine anche
i risultati particolarmente buoni
della gestione». Si arriva al 21
marzo del 1999: UniCredit lanciò
l'Opa sulla Comit e
contemporaneamente il Sanpaolo-Imi
fece altrettanto su Banca di Roma.
«Quella è una storia nota La Banca
d'Italia era contraria, il
Governatore Fazio voleva la fusione
tra Comit e Banca di Roma e non mi
volle neanche mai ricevere per
sentire le mie valutazioni.
Mediobanca considerò il tutto come
un assalto per stravolgere il suo
assetto azionario. Finì tutto in
poche settimane. In giorni capimmo
che i destini della Comit autonoma
stavano finendo, perché ci rendemmo
conto che Mediobanca ci stava
pilotando dentro Banca Intesa».
Cosa accadde? «In vista del cda del
14 maggio che doveva valutare il
nostro nuovo piano stand alone e la
proposta di Unicredit, con Abelli ci
recammo a Brescia dal neo presidente
Luigi Lucchini (che, in quota
Mediobanca, aveva sostituito Luigi
Fausti, ndr) per presentargli le
slide che avevamo preparato per il
consiglio, le quali evidenziavano
anche quanto ci eravamo detti con
Intesa. Lo incontrammo a casa sua,
ci ascoltò, vedemmo le slide e ci
chiese di accelerare i contatti per
valutare in tempi rapidi l'ipotesi
di aggregazione con Intesa. Demmo la
nostra disponibilità ». E lui?:
«Con nostra sorpresa ci disse: se
volete ne possiamo parlare subito,
sono già qui nell'altro
salotto il presidente di Intesa
Giovanni Bazoli e l'ad Carlo
Salvatori». Fu il segnale
inequivocabile che Mediobanca si era
già mossa e aveva deciso di
far confluire la Comit dentro Banca
Intesa. Poche settimane dopo, era
metà giugno del '99, Intesa
avviò le decisioni formali per
l'Opa sul 70% della Commerciale. E
il 21 giugno Abelli e Saviotti
lasciarono, in silenzio e senza
polemiche, la loro banca. Tornando
un passo indietro, cosa era accaduto
nd famoso cda della Comit del 14
maggio del 1999? «Venne presentata,
insieme il piano stand alone, la
nuova proposta di Unicredit ma
nemmeno la decisione di fondere
Credit e Comit per dar vita a
un'unica banca nazionale, che si
sarebbe chiamata Banca Commerdale
Italiana modificò la situazione. Fu
convocato un nuovo cda per il 21
giugno con all'ordine
provvedimenti sugli amministratori:
noi fummo esautorati e qualche
giorno dopo Intesa avviò l'Opa».
Restano però ancora due aspetti da
chiarire su quegli anni in Piazza
della Scala. Veniamo al primo. Dopo
la fusione di Comit in Intesa
avvenuta nel 2001 (non prevista
dagli accordi iniziali), ne 2002 il
nuovo gruppo effetttuò altre
svalutazioni Abbiamo parlato di
Sudameris, ma i crediti a rischio
nei confronti di controparti
internazionali in difficoltà
tra cui WorldCom ed Enron che Intesa
aveva ereditato da Comit. Cosa ha da
dire in proposito? «Io rispondo dei
bilanci che sono ricaduti la
responsabilità mia e di Abelli
e quindi fino a metà '99.
Quello che è successo da metà
'99 in poi, quando comunque la Comit
era al 70% di Intesa e dunque
ricadeva sotto il suo coordinamento
e controllo, io non lo posso sapere.
Posso però ricordare, a conferma
del buon giudizio del nostro operato
in Comit, che nel 2002 il neo
amministratore delegato di Banca
Intesa Corrado Passera mi chiese di
ritornare dandomi la delega per la
gestione del portafoglio crediti del
gruppo. Accettai con piacere perché
era un attestato di fiducia e il
segnale che la vecchia guardia della
Comit aveva ben operato». Ma qual
è la sua opinione sulle difficoltà
che ha avuto in seguito la Comit e
che hanno portato alla sua fusione
per incorporazione in Intesa? «Mi
sembra corretto segnalare che la
decisione di arrivare alla fusione
risale agli inizi del 2000 e
determinò le dimissioni
dell'amministratore delegato Aldo
Civaschi per il mancato rispetto
degli accordi che prevedevano
l'autonomia della Comit. La delibera
fu ufficializzata nel febbraio 2001.
All'epoca non si erano ancor
manifestati quei problemi che a metà
2002 indussero Passera ad un
radicale cambiamento di strategia
quanto a Sudameris ed alla gestione
del credito. Pertanto non vedo
alcuna relazione tra la situazione
dei bilanci Comit e la fusione,
penso piuttosto che sia stata dovuta
a serie difficoltà di
integrazione».
C'è un ultimo aspetto che,
talvolta, toma nella polemica che
avvolge gli ultimi anni della Comit.
La banca aveva perso il ruolo che
aveva avuto nel Paese e nel mondo
nell'era di Raffaele Mattioli, anche
perché voi eravate estranei a
quella cultura. Cosa risponde? «Tra
tutte, forse questa è la critica
che più addolora me e i miei ex
colleghi. Siamo stati considerati
dilettanti pieni di presunzione e di
"sciovinismo" catapultati al vertice
senzaavere gli attributi necessari
per gestire una delle più
importanti banche nazionali E'
evidente che, per motivi anagrafici,
non abbiamo lavorato a stretto
contatto con il dottor Mattioli che
era morto nel 1973. Ma siamo
cresciuti prima sul territorio e,
dagli ultimi anni ottanta, in
direzione centrale e come componenti
del consiglio di amministrazione in
stretto rapporto con i suoi diretti
collaboratori: Cingano, Braggiotti,
Monti, Russo, Siglienti, Righi,
Coma, Alvisi, Beneduce e gli altri
esponenti della direzione centrale
che si sono succeduti nel tempo,
tutti cresciuti alla scuola di
Mattioli. Abbiamo portato avanti una
storia, quella della Comit, che era
nota per la sua connotazione
intemazionale, ma anche per il suo
modello organizzativo basato sul
molo centrale dei direttori di
filiale». Quale è il suo ricordo
dei tanti anni passati in Comit?
«E' stata un'esperienza
indimenticabile: ho incontrato e
lavorato con persone eccezionali,
con grande preparazione, umanità
e passione,persone che hanno onorato
laloro missione con entusiasmo e con
una dedizione unica, vivendo una
crescita professionale basata sul
merito e stringendo legami di
amicizia indissolubili. Non è un
caso che tuttora nelle città
già sedi di nostre filiali,
colleghi si riuniscano
periodicamente e si tengono legati
per condividere ricordi e nuove
esperienze».